Uno sguardo che sostiene. Riadattamenti e nuove vicinanze | Studio Elios
Sguardi che si incrociano sotto mascherine che coprono il volto ma che non ci impediscono di far sentire ai nostri pazienti la nostra completa vicinanza.   
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Uno sguardo che sostiene

Uno sguardo che sostiene - Studio Elios Brescia

Uno sguardo che sostiene

 

“Strano che tutti i ricordi che tornano abbiano due qualità.

Sono pieni di silenzio; è questa anzi la loro virtù più forte,

 e rimangono tali anche se la realtà si fa diversa.

Sono visioni mute che mi parlano con lo sguardo e coi gesti,

 ed è il loro silenzio che mi commuove nel profondo”

(E. M. Remaque, Niente di nuovo sul fronte occidentale)

 

L’anno che sta per finire ha esposto tutti noi a un’esperienza traumatica collettiva che lascerà in ciascuno di noi diverse cicatrici.

Non tutti nella vita fanno esperienza del trauma, ma mai come oggi tutti possiamo capire cosa sia un’esperienza traumatica, l’impatto che ha sulla vita di tutti i giorni, sul nostro benessere psicofisico, quanto mini il senso di stabilità e sicurezza fondamentali per ogni essere umano, quanto ci costringa a utilizzare difese estreme che hanno la funzione di proteggerci ma che allo stesso tempo ci tolgono qualcosa perché sentirsi protetti è fondamentale.

Il trauma

Chi, come me, lavora con persone traumatizzate conosce bene gli effetti delle esperienze traumatiche: il trauma è sempre un evento inatteso, non prevedibile, impensabile, inimmaginabile che genera un taglio tra il prima e il dopo, dopo il quale qualcosa cambia (a volte per sempre), che lascia cicatrici emotive e ci espone al senso di impotenza. Attraverso esso facciamo esperienza dell’angoscia, di fronte alla quale non esistono difese se non estreme come l’isolamento (che non è solo l’isolamento fisico che tutti ormai conosciamo e a cui siamo costretti da tempo, ma può essere anche isolamento mentale).

Le cicatrici lasciate dal trauma non sono solo emotive, ma anche corporee: tutti noi non dimenticheremo mai le sensazioni che abbiamo provato nel guardare le immagini in tv, qualcuno purtroppo in diretta, dei furgoni che traportavano le troppe bare, le immagini dello sguardo impotente di medici e infermieri stremati; non dimenticheremo il silenzio straziante delle strade vuote rotto solo dal suono assordante delle ambulanze, gli sguardi disorientati e terrorizzati dei malati, le code interminabili ai supermercati dove un’attività routinaria è diventata anormale, per alcuni insostenibile, lo strazio per la perdita di persone care senza nemmeno la possibilità di un ultimo saluto, di un contatto, di un abbraccio, il senso di solitudine e abbandono a cui la difesa del confinamento ci ha relegati.

Di fronte al trauma tutti ci sentiamo disarmati, tutti facciamo esperienza dell’impotenza.

 

Trauma, corpo e narrazione

Gli studi più recenti sui traumi parlano dell’importanza delle sensazioni corpore e dell’esistenza di due forme distinte di autoconsapevolezza: quella che tiene traccia del sé nel tempo e quella che coglie il sé nel momento presente.

Per questo narrare la propria storia traumatica è importante ma, non sempre, il racconto dell’evento è sufficiente ad elaborare il trauma che rimane intrappolato nei ricordi, nelle sensazioni corporee, nelle immagini, negli odori, nei suoni, perché non sempre è possibile tradurre in parole le sensazioni di impotenza, di inadeguatezza, di colpa, di vergogna.

In questi anni di lavoro con l’EMDR ho imparato molto dal lavoro sul trauma coi mie pazienti e credo loro abbiano imparato molto sul trauma: ho imparato ad esempio quanto sia importante ascoltare più che parlare, ascoltare non solo le parole narrate, ma anche il linguaggio del corpo; aiutare i pazienti a riconoscere le loro sensazioni corpore senza provare vergogna o imbarazzo; ho imparato che c’è una forma di vicinanza che può essere rispettosa e accogliente senza essere invadente, fatta di empatia, e che l’empatia passa oltre che dalle parole pronunciate, anche attraverso uno sguardo che sostiene, che non fa sentire soli; che nel lavoro sul trauma si è sempre un piede dentro il passato e uno nel presente; che di fronte al trauma ci difendiamo come meglio possiamo, anche se nei modi più impensabili; che le persone sono piene di risorse, basta solo aiutarle a riconoscerle; e, infine, che spesso il trauma si può superare anche se il cammino è faticoso.

In fondo non è poi così strano! in fondo se ci pensiamo bene, noi entriamo in contatto col mondo attraverso il corpo, il suono delle voci e da lì impariamo a sentirci al sicuro, protetti, accolti o al contrario esposti, non visti, insicuri.

 

E ora…

E ora che oscilliamo tra emergenza e post-emergenza, zone rosse, arancio e gialle; ora che dobbiamo convivere con il protrarsi del senso di instabilità, oggi in cui siamo tutti costretti a riorganizzare le nostre abitudini, a mantenere le distanze, a mettere confini che proteggono anche se ci costringono alcune volte a guardarci attraverso gli schermi dei computer e ogni giorno attraverso le mascherine che rendono più difficile entrare in contatto con l’altro, sento che seppur più faticoso il lavoro continua, tra riadattamenti continui e nuove forme di vicinanza, sguardi che si incrociano sotto mascherine che coprono il volto ma che non ci impediscono di far sentire ai nostri pazienti che ci siamo.

 

Dott.ssa Chiara Borghi