19 Nov LE FALSE APERTURE: come sopravvivere tra sguardi taglienti ed occhiate minacciose
“Non dire non ce la faccio nemmeno per scherzo,
perchè l’inconscio non ha senso dell’umorismo,
lo prenderà sul serio e te lo ricorderà
ogni volta che ci proverai.” (Facundo Cabral).
Cronaca di un viaggio in Danimarca
Eccole. Tante aperture color oro caldo su facciate di mattoncini rosso scuro, come mattoncini lego. Qui i nostri simili sono di solito considerati freddi e distanti, come se bastasse una generalizzazione a connotare un popolo variegato. Sarà anche forse per l’aspetto, i bei colori un po’ ghiacciati che li caratterizzano o l’idioma dal suono metallico.
Eppure quando viaggi in un paese nordico, non senti addosso lo sguardo dell’altro; di solito, l’altro non ti vede e basta. È concentrato su altro, su un libro che ha per le mani, sul panorama che sta passando fuori dal finestrino, comunque non su di te e sulle tue supposte imperfezioni. Devo riconoscere che si tratta di un’esperienza diversa, alla quale non si è abituati, esperienza che probabilmente a lungo andare può essere estraniante.
Ma per pochi giorni può risultare rilassante, anche perchè qui le “quiet zone” sui treni e negli aeroporti esistono davvero, non sono solo una scritta strana e, se te ne dimentichi, qualcuno è pronto a ricordartelo, nemmeno troppo gentilmente. Sembra, ad uno sguardo sicuramente superficiale, tutto maggiormente “separato”, definito e nitido. Come il loro mare, blu, freddo e profondo.
E in quella luce strana, bianca e pura, puoi scoprire spazi di cura e calore che non ti aspetti. Nessun tendaggio a coprire gli interni. Nessuna difficoltà nel mostrare come si svolge la quotidianità all’interno delle case.
Ogni finestra fa mostra di piccole ceramiche, fiori ornamentali, giardinetti zen. Se solo ci si sofferma capita di vedere qualcuno seduto in poltrona con una tazza di caffè o una mamma di spalle che taglia le verdure. Il dentro si rivolge verso il fuori senza timore, come un guanto rovesciato. Pare che sia considerato irrispettoso lo sguardo insistente, indagatore, che scruta ed indaga senza permesso. Quindi ci si permette di mostrarsi senza troppe preoccupazioni, fiduciosi che lo sguardo dell’altro sarà leggero e distante.
E poi i vetri proteggono. Creano un sorta di barriera trasparente che protegge dalle mutevolezze della vita. Una “barriera di contatto” (Bion, Apprendere dall’esperienza,1984) che permette il contatto o la separazione tra coscienza ed inconscio, l’alternanza dei vari stati mentali e la nozione del tempo. Dietro una finestra vedo e sono visto, ma non sento il freddo, le voci, il vento, la pioggia, il calore. Guardo com’è là fuori e ho tempo per decidere se è il caso di uscire e come attrezzarmi. Ho tempo per pensare.
Tempo che Martina non ha potuto avere.
Martina sembra immersa in un flusso caotico di emozioni, colori, suoni, eventi. Confusa, non riesce ad orientarsi. Da sempre, la vicinanza simbiotica con una madre psicotica, l’ha sottoposta ad una sorta di centrifuga emotiva impedendo la strutturazione di un’identità personale ed autonoma. Nessuna sorta di separazione tra il sé e l’altro, come quando tutti i capi di diversi colori finiscono in un lavaggio ad alte temperature. Il clima emotivo è stato sempre troppo caldo in famiglia, troppo colorato, sempre in ebollizione. L’innata delicatezza di Martina non è stata rispettata e lei è cresciuta spiegazzata e macchiata da colori non scelti.
Anche adesso che è una giovane adulta non riesce ad individuarsi e perpetua una sorta di inconsapevole autosabotaggio (Francesco Gazzillo. I sabotatori interni,2012). Entra nel mondo senza riflettere, senza riuscire a fermarsi prima di agire. In un certo senso, senza guardare le previsioni del tempo, atto ansiogeno e controllante, ma che può salvare la vita, soprattutto se di tempeste ne hai prese tante. Martina è rimasta esposta alle grandinate materne e agli improvvisi viraggi verso ondate di caldo tropicale. Non sa chi è, cosa vuole, cosa le piace veramente, chi sono gli altri e cosa chiedono. Sempre nell’emergenza, ogni tanto apre uno di quei piccoli ombrellini da viaggio che di solito non servono ad un bel niente. Non sa nemmeno cosa cerca in una terapia, sa solo che sta troppo male ed è molto stanca. Ci guardiamo in faccia e sentiamo che forse è possibile fermarsi un po’ e cominciare a dare un nome ad alcuni di quei fili di lana colorata che le si intrecciano dentro in gomitoli di ansia.
Mi vengono in mente quelle luci dorate dietro le fredde finestre danesi. La possibilità di restare lì dietro ad osservare cosa succede dentro e fuori di sé. Uno spazio terapeutico dove, per ora, solo lo sguardo reciproco ha potere, mentre da tutto il resto ci si deve ancora proteggere. Per chi non è centrato ed è sempre in balia di un flusso costante di rumori interni ed esterni è molto difficile fermarsi. Spaventa l’improvviso silenzio. Le dico che se vuole potremmo provare per gradi, brevi momenti, quasi una messa in sicurezza, come quando si era piccoli e la mamma ci dava quegli ombrellini ricurvi di plastica trasparente. Da li sotto puoi vedere, ma si è protetti. Era bello vedere il mondo senza bagnarsi troppo e magari in due riusciremo a capirci qualcosa.